Il Codice di Perelà non ha avuto ancora l'attenzione che pur gli spetta" scriveva Pietro Pancrazi nel lontano 1920, e l'affermazione del critico potrebbe valere anche oggi. Salvo rare eccezioni infatti, il romanzo giovanile di Palazzeschi, uno dei vertici assoluti della narrativa italiana del Novecento, non è stato finora oggetto di analisi e interpretazioni adeguate alla sua grandezza. La predilezione stessa dell'autore, dichiarata senza ambagi nel 1958 ("Perelà è la mia favola aerea, il punto più elevato della mia fantasia"), non è servita a granché. L'opera, per il suo estremismo e l'eccentricità rispetto ai canoni narrativi italiani primonovecenteschi (o novecenteschi tout court), sembra sfidare quelle interpretazioni coraggiose ed estreme che senz'altro impone. Il gioco più che mai appariscente di una fantasia libera e leggera ha distolto i critici dall'analizzare in profondità la struttura allegorica e i riferimenti sociali contenuti nel romanzo. [...] Se da una parte II Codice di Perelà (1911) va considerato un esempio precoce di antiromanzo, dall'altra va letto come una favola allegorica: allegoria di una società e allegoria dell'impossibile opera di salvazione universale tentata, con la sua sola presenza e come malgré lui, dal protagonista, l'uomo di fumo Perelà. Non per niente l'opera ricalca in alcuni punti salienti la vita di Cristo.
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