Vino Montefalco Rosso Bona Dea.
Il Montefalco Rosso è un vino DOC la cui produzione è consentita nellâ€(TM)intero territorio comunale di Montefalco, ed consentita solo in parte in alcuni terreni dei comuni di Bevagna, Giano dellâ€(TM)Umbria, Gualdo Cattaneo e CasTel Ritaldi, nella provincia di Perugia. Gli uvaggi da cui è composto il vino è un mix di Sangiovese (dal 60 al 70%), Sagrantino (dal 10 al 15%), altre uve indigene fino a un massimo del 30% (tipicamente Merlot, o altri vitigni a bacca rossa autorizzati per la provincia di Perugia). Questo vino può essere commercializzato solamente a seguito di un invecchiamento di almeno 18 mesi. Un invecchiamento maggiore origina il Montefalco rosso riserva.
Il Montefalco Rosso Bona Dea, coltivato dallâ€(TM)azienda agraria Cutini di Gualdo Cattaneo sulle colline delle â€Å"Terre Romiteâ€, è un vino dal gusto molto naturale, di buona struttura dalla tannicità gradevole; il bland è composto da un 60% di uve di da Sangiovese, 20% da uve di Merlot, un 5% da uve di Cabernet Sauvignon, e da un 15% di uve da Sagrantino. La produzione massima non arriva mai a superare gli 80 q ad ettaro, una resa minore per raggiungere un maggior controllo della qualitaâ€(TM), in terreni collinari che si trovano a 400 m s.l.m, ben esposti alla luce allâ€(TM)aria, anche essi circondati da boschi contigui i terreni aziendali. La raccolta delle uve tutta manuale per il rispetto della qualità, aiuta a scegliere solo i grappoli migliori. Le caratteristiche organolettiche del Montefalco Rosso Bona Dea sono particolari, di colore rosso intenso, tende al granato man mano che invecchia, il profumo fresco e fruttato col tempo assume un carattere deciso quasi speziato; la struttura è gradevole, la tannicitaâ€(TM) non esagerata: la gradazione in base alla stagione oscilla tra i 13,5% e i 14,5% vol. Un vino corposo ma non pesante gradevole per un palato raffinato ed adatto per la degustazione di pietanze saporite, carni arrosto, zuppe piccanti, e formaggi mediamente stagionati.
BONA DEA fu chiamata dagli antichi romani Damia. In origine, questo non fu che un appellativo della dea romana Fauna, che formò, insieme con Faunus, una delle più antiche coppie degli dei indigeti del Lazio . Bona Dea Fauna era stata, come Fauno, una divinità della pastorizia e dei boschi, era anche chiamata, col nome di Fatua una dea che predice lâ€(TM)avvenire. Dal culto di Fauna erano esclusi gli uomini, come dal culto di Fauno erano escluso le donne. Ma sullâ€(TM)epiteto di Bona Dea venne ben presto ad innestarsi il culto di una divinità greca introdotta in Roma dalla Magna Grecia. La dea greca che assunse a Roma il nome di Bona Dea fu Damia, divinità venerata specialmente nellâ€(TM)Argolide, e anche a Egina, a Sparta, e Tera e, in Italia, a Taranto. Anche al culto di Damia, regolato sul tipo dei â€Å"misteriâ€, attendevano soltanto le donne. Da Taranto la dea passò a Roma, come pare, nellâ€(TM)occasione stessa della caduta di quella città in mano dei Romani (272 a. C.); e allora la somiglianza del suo culto, riservato alle donne, con quello di Fauna fu causa dellâ€(TM)identificazione, prima, ed in seguito della sostituzione della nuova figura divina allâ€(TM)antica. La festa di Bona Dea ricorreva una volta allâ€(TM)anno, a una data non fissa, ma sempre al principio di dicembre; si celebrava di notte, sul modello delle greche Ï€?Ï...Ï?Ï,, nella casa di un magistrato cum imperio; ivi convenivano le matrone romane, incaricate di compiere il rito per conto dello stato, pro populo (, insieme con le Vestali e le matres familias dello stato: gli uomini erano rigorosamente esclusi. Al rito presiedeva la moglie del magistrato nella cui casa si allestiva a festa ornandola con tralci di vite, il mirto era vietato, la matrona era in tal caso la come sacerdotessa della dea, il nome di damiatrix (Paul., Festi ep., p. 68: dea quoque ipsa Damia et sacerdos eius damiatrix appellabatur). Il rituale e le formule del culto si mantenevano segreti: sâ€(TM)intende così come gli scrittori romani designino di solito tale festa col nome di mysteria. Come vittima, veniva offerta alla dea una scrofa; nel rito, accompagnato da musica e da danze, protagonista inalarga parte era il vino, il quale però veniva sempre ricordato con falso nome (Macrob., Sat., I, 12, 25: vinum in templum eius non suo nomine soleat inferi, sed vas in quo inditum est mellarium nominetur et vinum lac nuncupetur. La leggenda raccontava che Bona Dea, avendo bevuto di nascosto dal marito Fauno un boccale di vino, ed essendone rimasta inebriata, era stata da lui bastonata a morte con rami di mirto. Un tempio di Bona Dea, il cui ingresso era pure vietato agli uomini, sorse in Roma ai piedi dellâ€(TM)Aventino; restaurato da Livia, se ne celebrava lâ€(TM)anniversario della dedicazione il primo di maggio. In questo tempio, la dea assunse anche il nuovo aspetto, appartenente pur esso alla greca Damia, di divinità salutifera. In tale significazione, il culto di Bona Dea andò sempre più diffondendosi, nel periodo dellâ€(TM)impero: una piccola farmacia era annessa al suo tempio, e le donne ricorrevano volentieri allâ€(TM) aiuto della divinità e al consiglio di speciali collegi di sacerdotesse addette ai templi stessi e alle loro farmacie.
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